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Tutti i tranelli delle commissioni di performance

Le commissioni di performance sono state in passato introdotte come un incentivo nella gestione di un investimento a creare maggiore rendimento.

E fin qui nulla di male.
Ci può stare che se riesci a farmi rendere il mio portafoglio “più del dovuto” la tua remunerazione aumenti.

Il problema è che spesso queste commissioni vengono settate in modo poco chiaro e trasparente, anche asimmetricamente, e si arriva al paradosso per cui il risparmiatore paga commissioni di performance senza avere una performance.

Come detto, le commissioni di performance nascono per andare a favore sia il gestore dell’investimento, che il risparmiatore: il meccanismo nasce infatti per incentivare i professionisti finanziari a lavorare al meglio per garantire un rendimento più alto possibile al cliente, nella speranza di incassare il bonus, in modo che entrambi ci guadagnino. Tuttavia, questo sistema di commissioni presenta diverse criticità: alcune di esse sono intrinseche nel meccanismo stesso, altre invece derivano da una applicazione, diciamo, maliziosa di questo strumento da parte delle case di gestione.

Qualcuno potrebbe controbattere che queste commissioni portano però il gestore ad assumersi più rischi del dovuto, rispetto al profilo del suo investitore (che ci può anche stare), ma l’obiettivo di questo articolo non è provare a mostrare questa forma di moral hazard, quanto invece notare come l’applicazione “furba” di queste commissioni spesso porta l’investitore, su molti fondi italiani, a pagare commissioni di performance senza performance.

Perché le commissioni di performance fanno così gola?

In passato, Banca d’Italia e CONSOB avevano già messo in guardia le banche da un’utilizzo troppo “forsennato” delle commissioni di performance, che rappresentavano, specialmente per quattro “indiziate”, una fonte di ricavi fortissima.

Raccogliendo i dati di bilancio dei maggiori protagonisti del mercato italiano del risparmio gestito, si capisce perché le commissioni di performance fanno così gola alle banche: partendo dalle prime 10 aziende per masse gestite sui Fondi Aperti (secondo i dati Assogestioni), siamo andati a selezionare quelle italiane che si occupano sia di prodotto che di distribuzione, che sono quotate su Borsa italiana e che applicano commissioni di performance almeno su uno dei propri fondi, raffrontando le commissioni di performance e gli utili generati dalle Società in questione.

Queste banche utilizzavano il tranello dei fondi domiciliati all’estero per eludere la nostra normativa più stringente sull’applicazione delle commissioni di performance, prassi, quella di domiciliare i fondi fuori paese, molto comune: basti pensare che già alla fine del 2013 dei 560 miliardi di Euro che costituivano il patrimonio investito in fondi comuni in Italia, ben 235 erano investiti in fondi comuni di società italiane ma domiciliati all’estero.

Ma quindi, qual è il meccanismo furbo e perverso che sta dietro l’applicazione delle commissioni di performance?

Molto semplice: far pagare commissioni di performance anche quando non c’è una performance, ance solo se si stanno recuperando perdite.

1° tranello: calcolare le commissioni trimestralmente

Facciamo un esempio pratico e compariamo i costi di performance dell’Investitore A con quelli dell’Investitore B, quindi i costi di chi ha scelto un fondo domiciliato in Italia con commissioni di performance annuali e quelli di chi ha optato per lo stesso fondo ma domiciliato all’estero, quindi con commissioni di performance trimestrali.

L’Investitore A ha investito con un orizzonte temporale di 2 anni in un fondo domiciliato in Italia con commissioni di performance annuali pari al 20% dell’over-performance registrata rispetto ad un benchmark monetario come l’Euribor a 3 mesi (prossimo allo zero). Supponiamo inoltre che l’investimento abbia un rendimento negativo per il primo anno (2018) e positivo per il secondo (2019). Ne consegue che nel 2018 le commissioni di incentivo sarebbero pari a 0€, in quanto la gestione non ha prodotto guadagni. Al contrario, a fronte di un incremento della quota, nel 2019 l’investitore pagherebbe una commissione di performance.

L’Investitore B con un fondo identico a quello dell’Investitore A, ma con la differenza che quest’ultimo è domiciliato all’estero quindi ha commissioni di performance trimestrali, si troverebbe a pagare una commissione di performance più alta perché nonostante il fondo abbia avuto un rendimento cumulato negativo nel primo anno (2018), l’investitore potrebbe dover corrispondere comunque le commissioni di incentivo al fondo per le performance relative ai singoli trimestri (dove si recupera la perdita). Commissioni che si accumulerebbero poi a quelle del 2019 superando di gran lunga le commissioni pagate sul fondo italiano.

2° tranello: fondi senza High Watermark

L’high watermark è una clausola contrattuale per la quale l’investitore non paga la performance fees fino a quando il valore del fondo non supera il massimo mai raggiunto in precedenza (“high watermark assoluto”) o la massima differenza rispetto al benchmark mai raggiunta in precedenza (“high watermark relativo”).

La presenza di questa clausola tutela l’investitore dal pagamento di performance che sono recuperi di perdite pregresse: la sua assenza lo espone invece a commissioni-tranello.

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Sul mercato italiano, purtroppo, esistono diversi strumenti che adottano performance fee mensili senza high watermark. Si tratta di strutture vietate per i fondi di diritto italiano, che richiedono un periodo di calcolo di almeno un anno, ma non per i fondi italiani di diritto irlandese distribuiti in Italia (sempre loro).

Tale sistema fa sì che tutti i mesi il cliente debba pagare una commissione ogni volta che il fondo batte il proprio benchmark, senza tenere conto del massimo valore del fondo raggiunto in precedenza.

In questa elaborazione, abbiamo simulato l’andamento annuale di un fondo senza clausola “high watermark”, dove le commissioni di performance sono applicate su periodi infrannuali mensili ogni volte che il fondo batte il benchmark.

Si vede bene come l’investitore paga fees anche quando sta semplicemente recuperando delle perdite. E si vede bene come questo meccanismo porta il NAV del fondo in negativo. Se non bastasse, diversi fondi, anche azionari, utilizzano il tasso Euribor a tre mesi come benchmark, che è addirittura negativo, facendo diventare per il gestore un gioco da ragazzi guadagnare commissioni di performance: basta infatti avere una performance mensile superiore a zero per attivare le commissioni.

In sostanza, l’investitore si trova ad avere in mano, paradossalmente, un fondo in perdita anno su anno, su cui però ha pagato delle commissioni di performance!

Sul mercato italiano, ad esempio, esiste un fondo di diritto irlandese che applica una performance fee molto particolare: se l’aumento percentuale mensile annualizzato del Nav è superiore al 5% allora viene applicata una performance fee del 5%, altrimenti del 3%. Tali percentuali vengono applicate mensilmente sull’extrarendimento mensile del fondo rispetto all’Euribor a tre mesi moltiplicato per 1,5. Per giunta, nel calcolo della commissione di performance non viene tenuto conto delle sottoperformance rispetto al benchmark dei periodi precedenti: quindi la performance fee va pagata senza che sia necessario alcun recupero (Fonte: Sole24Ore).

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Purtroppo, tutte queste inefficienze nella struttura dei costi dei veicoli d’investimento sono difficili da scovare dal risparmiatore (che non si avvale di un consulente indipendente) proprio perché nascoste sotto il “prelievo-forzoso” su cui si basa tutta la remunerazione della finanza non indipendente.

Se l’investitore pagasse SEMPRE i sevizi finanziari che gli vengono offerti non come prelievo dai suoi fondi a monte, ma dietro parcella, come accade nei confronti di un professionista finanziario indipendente, il risparmiatore avrebbe piena contezza dei costi che paga, ricercherebbe forme di investimento sempre più efficienti e l’intermediario professionista sarebbe sempre più agevolato (indirettamente) a cercare forme di servizi finanziari più efficienti.

Purtroppo, è molto più semplice prelevare i costi per i servizi d’investimento dai soldi investiti dell’investitore, facendogli credere di non stare pagando nessun servizio.

Gabriele Galletta
info@investimentocustodito.com

CEO di Investimento custodito, Risk Manager, Analista Finanziario, massimo esperto in Italia della filosofia All Weather. Seguitissimo sui social e sulle sue piattaforme, ha aiutato migliaia di persone a riprendere in mano il controllo dei propri soldi grazie ai suoi corsi e ai suoi libri.



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